mercoledì 10 settembre 2008

A passage to India

E’ ormai una settiamana che sono arrivata in India.
Mi ricordo ancora gli addii pressoché strazianti a parenti e fidanzato e un viaggio di 12 ore con il cervello totalmente spento…
E quando il comandante annuncia l’atterraggio e finalmente comincio a realizzare.
Usciamo dall’aeroporto e subito vengo assalita dalla sua forza: umida, rumorosa e da un odore difficile da descrivere, di spezie e di gente. Il caos che la fa da padrona. Non un semaforo, non un cartello della strada, di vigili nemmeno l’ombra. Ma il suo ordine sembra essere questo caos, perché nessuno viene investito,nessuno tamponato.
Vengono a prenderci due studentelli tutti fieri della loro università “the third of India!” e facciamo il nostro ingresso trionfale all’MDI. Sono le sei del mattino eppure in tanti occupano i grossi prati, chi si diletta con il criket, chi corre, chi siede sotto una palma inerte per il caldo che già a quest’ora si respira.
I convenevoli e poi riesco finalmente a poggiare la valigia nel mio nuovo rifugio, una cameretta di circa 10 mq, che dovrò condividere con una ragazza italiana del gruppo dei bocconiani, dove trovo unicamente due letti, due scrivanie, due armadi e due ventilatori a pale. Niente specchi, comodini, cassetti, ma, soprattutto, niente bagno. Scopro presto che lo dovrò condividere con tutte le ragazze del piano, che comunque sembrano non farne troppo uso. A distanza di qualche giorno mi sembra quasi confortevole, con le sue grandi docce e i suoi grandi specchi.
“Devi solo farci l’abitudine”.
Questa frase me la sarò sentita ripetere e me la sarò ripetuta io stessa non so quante volte nelle prime ore. Ma ci sono un po’ di cose che me la fanno sembrare impossibile: il caldo soffocante, l’umido che si attacca alla pelle fino a sera, lo sporco che si può trovare in ogni angolo, in ogni strada, sulle mani di ogni persona. E a questo si aggiungono le 12 ore di distanza da casa e tutte le persone che stanno là.
Ma con le prime strette di mano e i primi sorrisi comincio a realizzare che forse così difficile non sarà.
Conosciamo infatti qualche erasmita , tra cui molti italiani: c’è Nicola, sardo e dalla bella (in senso lato) parlantina, c’è Simone, di Monza, che qui tutti chiamano il “bambino”, perché è il più piccolo della compagnia e perché è l’unica parola italiana che glia altri stranieri sono riusciti a imparare e infine c’è Gui, di Genova, ma vissuto un po’ qua e un po’ la.
E poi l’ampia mole di ragazzi stranieri: Diane e Louis francesi, Soren e Brita tedeschi, Dimitris greco, Michael belga e le due bionde, Heidi e Gosia, scandinave. Ci dicono che nel week end ne arriveranno ancora una trentina.
Veniamo subito invitati ad un club in uno dei mille centri commerciali che la città (una sorta di Rozzano di Delhi) ospita. E’ un posticino piccolo e non troppo frequentato, ma dove la musica è più che dignitosa (se non altro non unicamente indiana) e dove i cocktail costano intorno all’euro ciascuno. Presto ci troviamo a scatenarci alle note dei Chemical come se fosse così da tutta una vita. E la cosa mi fa sentire bene.
Ci sono milioni di cose che ancora devo scoprire su questo paese e su chi lo abita, ma un po’ comincio a farmi l’idea su di alcune. Per esempio, qui il tempo passa in maniera differente dal nostro. E’ impensabile fissare un appuntamento, perché sai che qualcosa ti capiterà per forza: può essere il traffico, una mucca in mezzo alla strada, un temporale dal nulla o il risciò che si è perso (ebbene sì, vado in giro in risciò, come quelli di Pinarella di Cervia, ma a motore e che almeno ti portano in lungo e in largo per 5 rupie a giro, circa 50 centesimi). Inoltre vedi persone dormire 2 ore al giorno, troppo prese dallo studio o da qualche torneo di calcio, che passeggiano di stanza in stanza alle 4 di mattina, come se per noi fosse pieno pomeriggio.
Ma soprattutto, comincio a notare le sue enormi contraddizioni e le sue mille facce diverse e contrapposte.
Domenica è stata una giornata emblematica a tal proposito.
Questo weekend eravamo ad Agra (con tutta la gente di cui sopra) a vedere il taj Mahal e attorno a me si stagliava per la città uno scenario che ormai comincia ad essermi molto familiare: macchine rumorose, polvere, venditori ambulanti che ti seguono proponendoti le loro mille cianfrusaglie finchè stremato non gliele compri, animali per la strada e bambini seminudi che ti sorridono ogni volta che ti avvicini loro. Insomma, una povertà a cui, fortunatamente (perché quanto siamo fortunate!!!), non siamo minimante abituate.
A distanza di 5 ore di bus e mezz’ora di preparativi facciamo il nostro ingresso in uno dei Mall più lussuosi e scintillanti che io abbia mai visto (di quelli che compaiono soltanto sulle rivistine degli aerei delle compagnie arabe) per andare all’inaugurazione della gioielleria di un amico di Dimitris, dove mi accorgo che di ognuno dei collier nelle vetrinette è composto da diamanti non più piccoli di una mia unghia.
E dopo una settimana qui, non so dire se preferisco lo zaino in spalla e i sorrisi dei bambini quando porgi loro un pennarello, o i discorsi su quante guardie si hanno in media nelle proprie ricche case…
Ma più passano i giorni più mi innamoro di tutto questo.
Avrei parecchia voglia di un vostro abbraccione.
कोस्तान्ज़ा

1 commento:

Simona ha detto...

wow costi... in confronto dove sono io sembra davvero troppo semplice... è incredibile pensare a quanto stiamo cambiando e ci stia dando questa esperienza... in bocca al lupo...